Questa torta rustica lombarda è più antica del castagnaccio (e quasi nessuno la prepara più)

Un tempo cibo di sopravvivenza, oggi dolce povero di memoria e territorio: la patona è il castagnaccio lombardo da riscoprire

In provincia di Pavia esiste un dolce che pochi conoscono fuori dai confini lombardi: si chiama patona, o pattona, ed è una torta rustica a base di farina di castagne che affonda le radici nella cucina contadina e montanara del Nord Italia. Simile al più noto castagnaccio, da cui eredita ingredienti e tecnica, la patona si distingue per l’uso del latte, dello zucchero, dell’olio di semi e della uvetta, che ne ammorbidiscono la struttura e ne addolciscono il gusto. Oggi la si trova in qualche pasticceria tipica o trattoria di zona, ma resta soprattutto un piatto domestico, cucinato in autunno quando le castagne tornano protagoniste. Pochi ingredienti, nessun fronzolo, solo memoria e sostanza.

Dalle cucine povere alle tavole di oggi: la patona è la storia di un territorio

Le origini della patona pavese si intrecciano con quelle del castagnaccio, nato come piatto di resistenza nei mesi freddi, quando l’unica cosa disponibile nei boschi era il frutto del castagno. In Appennino come nelle Prealpi, la farina di castagne veniva impastata con acqua o latte, versata su pietre calde o lastre di terracotta, e poi cotta lentamente. L’intento non era fare un dolce, ma ricavare energia da quel poco che c’era. Ancora oggi l’impasto resta fedele alla semplicità: farina di castagne setacciata, acqua, latte, olio e uvetta, niente lievito, niente fronzoli. Solo gusto, storia e radici.

Dalle cucine povere alle tavole di oggi: la patona è la storia di un territorio – aperito.it

Nel mantovano, in Lunigiana, nel modenese e in tante aree dell’Italia centrale e settentrionale, il castagnaccio ha assunto forme diverse: “castignà” in Lunigiana, “torta di neccio” nel lucchese, “toppone” a Livorno, con cotture tra foglie di castagno e spessori sottilissimi. Ma nella patona pavese sopravvive l’essenza più pura: niente pinoli, niente rosmarino, nessuna decorazione scenica. Solo un dolce denso, umido, che non ha bisogno di essere bello per piacere. Le prime tracce di ricette simili risalgono addirittura al 1500, con Ortensio Landi che nel suo Commentario delle più notabili et mostruose cose d’Italia menziona i “castagnazzi” attribuiti a Pilade da Lucca.

Nella zona pavese, il castagneto non era una semplice risorsa alimentare: era una garanzia di sopravvivenza, e la farina ottenuta dalle castagne secche veniva conservata con cura per tutta la stagione fredda. La patona nasce qui, in questo contesto di necessità, e resiste ancora oggi come uno dei dolci stagionali più identitari del territorio, anche se poco noto fuori dai suoi confini.

Ingredienti semplici, sapore pieno: la ricetta autentica della patona pavese

La ricetta della patona prevede di mescolare circa 300 g di farina di castagne con latte e acqua (di solito due bicchieri), fino a ottenere un impasto fluido ma denso. Si aggiungono 50 g di zucchero, un pizzico di sale, tre cucchiai di olio di semi, e uvetta ammorbidita in acqua tiepida. Alcuni aggiungono anche un cucchiaio di miele, ma non è obbligatorio. Si versa l’impasto in una teglia bassa e unta d’olio, si livella con il dorso del cucchiaio e si cuoce in forno statico a 180°C per 40-45 minuti.

Il risultato non deve essere asciutto: la patona deve rimanere morbida al centro, quasi fondente, con la superficie appena caramellata. È un dolce che non lievita, ma si compatta in forno sviluppando una crosta sottile che racchiude un cuore denso e dolce. Si serve a temperatura ambiente, a fette, da sola o con un cucchiaio di ricotta fresca o panna montata non zuccherata.

La vera forza di questo dolce sta nella sua identità sobria. Non ha bisogno di innovazioni né di rivisitazioni. È una torta che profuma d’autunno, di boschi umidi, di stufe accese e mani infarinante. Ed è proprio in quella ruvida sincerità che la patona continua, ancora oggi, a raccontare la sua storia fatta di fame, legna e raccolti. Una testimonianza viva della cucina povera lombarda, che oggi ha il sapore dolce della memoria.

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